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COP26, come siamo rimasti?

Si è chiusa il 13 novembre a Glasgow la Conferenza sul Clima delle Nazioni Unite (COP26). Cosa è stato deciso?


Poche buone notizie.

L’accordo tra le Nazioni c’è, ma l’impegno verso l’uscita dal carbone e lo stop ai sussidi alle fonti fossili, viene ridimensionato alla grande. Il carbone (tra poco spenderemo due righe in più), che doveva essere abbandonato, sarà infatti solo ridotto.


Glasgow Climate Pact (COP26).

Il Patto per il clima di Glasgow (cop26) è un rallentamento del solo carbone “unabated”, quindi le emissioni non vengono abbattute, per esempio con sistemi di cattura della CO2 (una tecnologia considerata ancora non sostenibile sul fronte dei costi), e uno stop ai sussidi delle fonti fossili inefficienti. Insomma, come si dice “ci abbiamo messo una pezza”.


India, Cina e Stati Uniti.

Tre potenze, tre miliardi di persone, che mettono all’angolo gli altri 194 partecipanti. Gli Stati più piccoli, quelli meno responsabili ma paradossalmente più colpiti dal cambiamento climatico, denunciano di essere stati messi davanti a un aut aut.

La stessa Unione Europea sostiene di non condividere gli accordi presi. Vediamoli allora da vicino.



1. Ribadito l’obiettivo a 1,5 gradi.

Viene ribadito l’impegno a fare i massimi sforzi per stare “ben sotto i 2 gradi” di aumento delle temperature e nell’intorno di 1,5 gradi, considerato dagli scienziati il valore limite entro cui mantenersi per prevenire conseguenze disastrose della crisi del clima. Il che si traduce in una promessa a tagliare le emissioni del 45 per cento entro il 2030.


2. Via lo stop definitivo a fonti fossili e carbone.

Come detto, Cop26 non ha consegnato il carbone alla storia come aveva promesso. Di revisione in revisione l’impegno è stato ridimensionato fino ad arrivare al phasing down, che, peraltro, riguarda solo il carbone “unabated (senza sistemi di cattura e stoccaggio della CO2).

Rispetto ai sussidi alle fonti fossili si parla di blocco solo a quelli “inefficienti”. Cosa significa? Chi definisce cosa è efficiente o no? Sulla base di quali criteri?


Un ruolo potrebbe averlo l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), che l’accordo eleva a barometro del clima, e quindi pone tra le principali agenzie mondiali per rilevanza, con responsabilità pesanti nel disegnare il mondo che verrà. Come dire: il riferimento non è più la politica, ma la scienza. Dall’altra parte, però, il legame non è esplicitato e ogni paese, di fatto, deciderà per sé.


3. Arrivano i 100 miliardi, ma entro il 2023.

È stata una Cop in cui si è parlato molto di denaro. Anche perché chi doveva riceverlo, ossia i Paesi meno sviluppati, è arrivato a Glasgow senza che le economie più ricche avessero raggiunto nel 2020 i 100 miliardi di dollari all’anno a sostegno della transizione energetica promessi nel 2009 a Copenhagen. L’impegno è di aumentare, persino raddoppiare gli stanziamenti in futuro tra il 2025 e il 2030. Intanto, però, il traguardo dei 100 miliardi è posticipato al 2023.


I Paesi meno sviluppati, ovviamente, avrebbero voluto una formula più stringente per recuperare anche le quote non versate in precedenza. Non l’hanno ottenuta.


4. Loss and demage.

In sostanza, perdite e danni è una formula convenzionale per indicare i risarcimenti che i Paesi meno sviluppati, ma più vulnerabili alla crisi del clima, chiedono alle economie più ricche. Noi soffriamo di più a causa di eventi disastrosi come uragani, siccità o innalzamento dei mari, voi ci compensate. Ci si aspettava che da Glasgow si uscisse con impegni concreti, un fondo dedicato e un meccanismo di restituzione. Si riuscisse finalmente a rendere operativo il Santiago Network, una rete per mettere in contatto i paesi in via di sviluppo con aziende e operatori che possano fornire aiuto nell’affrontare la crisi climatica.


Invece l’accordo finale riconosce solo il diritto a perdite e danni. Ma niente soldi. Inutile dire che i paesi scontenti sono parecchi.


5. Il mercato del carbonio.

Il problema del carbonio è stato chiuso. Dopo sei anni di trattativa, uno dei risultati di Cop26 è stato aver trovato un accordo su come regolamentare il mercato dei crediti, ossia un sistema di scambio delle emissioni tra i Paesi, attraverso cui chi inquina meno compensa chi sfora i limiti o ha bisogno di aiuto per non superarli.


È stato uno degli argomenti più combattuti. Non è stata inserita la trattenuta su queste transazioni destinata a sostenere i paesi in via di sviluppo. I crediti maturati all’interno dei protocolli di Kyoto fino all’anno scorso (dal 2021 entrano in vigore gli accordi di Parigi) grazie alla riduzione della deforestazione, che sarebbero stati di aiuto per tanti piccoli Paesi, sono stati cancellati. Guardando il bicchiere mezzo pieno, viene limitato il ricorso volontario al mercato del carbonio.


6. Chi controlla che gli impegni vengano rispettati?

Una parte dei negoziati ha avuto come tema la trasparenza. E in particolare la trasparenza del sistema di contabilità delle emissioni. Complesse tabelle Excel dove, per attività (per esempio agricoltura o industria) e tipo di gas serra i Paesi dichiarano le loro emissioni e sottopongono i propri sforzi al giudizio altrui.


Ma cosa succede se un Paese non riesce a raccogliere i dati necessari, perché manca delle infrastrutture necessarie?

L’accordo raggiunto a Glasgow prevede che i Paesi in via di sviluppo che hanno bisogno di flessibilità nella contabilità delle emissioni possono evitare di consegnare alcuni dati e riempire le caselle mancanti o con la sigla Fx (che sta per flessibilità), un modo per dire agli altri che su quella specifica informazione devono portare pazienza. La sigla Fx era il compromesso cercato proprio dai Paesi meno sviluppati per evitare di lasciare il foglio bianco, senza però nascondere gli altri dati. Si parte dal 2024.


7. Qualche risultato della COP26.

Nella prima settimana di Cop si sono ricorsi molti accordi multilaterali. Uno su tutti, quello per limitare le emissioni di metano del 30 per cento rispetto a quelle del 2020 entro la fine del decennio. Una iniziativa guidata da Stati Uniti ed Europa e sottoscritta in totale da 105 paesi, salvo Cina, Russia, Australia. È uno dei risultati più importanti ottenuti a Cop26, perché il metano ha la capacità di riscaldare l’atmosfera circa ottanta volte più velocemente dell’anidride carbonica, ma questa capacità cala drasticamente dopo un ventennio.


8. Diamoci dei tempi.

L’accordo stabilisce che ogni Paese dovrà fornire alle Nazioni unite i suoi piani sul clima per cicli quinquennali. Il patto di Glasgow si limita a “incoraggiare” a presentare nel 2025 il pacchetto di impegni per ridurre le emissioni e centrare gli obiettivi degli accordi di Parigi, detti contributi determinati a livello nazionale del 2035, nel 2030 quelli del 2040.


9. Dal 2022.

Non tutto si conclude a Glasgow. Entro l’anno prossimo i Paesi che ancora non l’hanno fatto devono consegnare i loro piani nazionali. Poi parte un programma di lavoro per accelerare il taglio delle emissioni, che presenterà i suoi risultati alla Cop27, ospitata dall’Egitto a Sharm-el-Sheik, e una commissione annuale di verifica delle strategie sul clima dei vari Paesi.


Cosa portiamo a casa?

Tante parole, pochi fatti. Abbiamo vinto perché se ne parla. Abbiamo perso perché resta poca azione, il cambiamento avviene con ideali che si trasformano in azioni concrete. La strada è ancora lunga, ma come sempre guardiamo al lato positivo e pensiamo che non siamo impotenti e che non tutto dipende dagli altri. Iniziamo noi, un passo alla volta.



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